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Maria di Cleofa e la "gaffe" scultorea di Giulio Cozzoli

A cura del prof. Cosmo Tridente.
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Maria di Cleofa è la terza statua ad uscire dalla chiesa del Purgatorio nella processione del sabato santo.
I portatori appartengono alla Confraternita della Purificazione che indossano: camice, cappuccio e cingolo con fiocco bianchi, mozzetta gialla, al collo laccio nero con piastra di metallo riproducente la Madonna della Purificazione (popolarmente chiamata “la Médonne de le perùdde”).
Intanto va fatta una precisazione linguistica: “Cleofa” è la traduzione italiana del nome greco “Kleopàs” che corrisponde all’ebraico “Alfeo” (Halphai). Maria di Cleofa vuol dire dunque Maria moglie di Cleofa o Alfeo. Pertanto non è corretto attribuire a questa pia donna un secondo nome: “Maria Cleofe”, come la si suole chiamare erroneamente. La colpa, diciamo così, va data alla versione latina del Vangelo, dove si legge “Maria Cleophae” (Cleophae è il genitivo di Cleopha, intendendo per l’appunto moglie di Cleofa).
Inoltre, sulla famiglia di questa pia donna spesso non si hanno idee chiare ragion per cui cerchiano, con l’ausilio di fonti attendibili, di sgombrare il campo da possibili equivoci. I Vangeli ci dicono che Maria è moglie di Cleofa (Giov. 19-25; Luca 24-18) ed è madre di Giacomo il minore e di Joses (Marco 15-40; Matteo 27-56). Fin qui non ci piove. Ma la genealogia diventa poco chiara quando leggiamo che Giacomo il minore è figlio di Alfeo (Matteo 10-3; Marco 3-18; Luca 6-15; Atti 1-13), e che Giacomo, Giuseppe, Giuda e Simone sono “fratelli” di Gesù (Marco 6-3; Matteo 13-55).
Per conciliare questi dati sono state proposte due soluzioni. Alcuni hanno identificato Alfeo con Cleofa, nel senso che potrebbero essere due nomi della stessa persona, o meglio due forme dello stesso nome aramaico per cui figli di Cleofa (o Alfeo) sarebbero Giacomo il minore e Joses (il cui ruolo nei Vangeli è inesistente). Altri invece, ed è l’ipotesi più accreditata, affermano che la madre di Giacomo, Maria, si sarebbe sposata due volte: dapprima con Alfeo, di stirpe sacerdotale, ed avrebbe avuto come figli Giacomo e Giuseppe; poi, morto Alfeo, si sarebbe sposata con Cleofa, di stirpe davidica, ed avrebbe avuto Giuda Taddeo e Simone il cananeo.
Accettando questa seconda ipotesi, i figli di Maria di Cleofa sarebbero, pertanto, quattro: Giacomo il minore e Giuseppe (di “primo letto”, come si dice popolarmente), Giuda Taddeo e Simone il cananeo (di “secondo letto”). Tenendo conto che Cleofa, secondo Egesippo (nato verso il 115 a Gerusalemme e morto nel 180), era fratello di S.Giuseppe, si ha che Giuda Taddeo e Simone il cananeo erano cugini (tale è il valore dell’espressione “fratello”, di cui parla Marco 6-3 e Matteo 13-55) di Gesù e nipoti di S. Giuseppe, sposo della Vergine Maria, la quale veniva quindi ad essere zia di entrambi e cognata della madre di questi, ecco perché Giovanni (19-25) chiama tale Maria “sorella” di Maria SS., sorella, ossia cognata.
Maria di Cleofa faceva parte del gruppo di donne che seguirono Gesù per tutta la Galilea. Rimase presso il Calvario dopo la morte del Redentore, assistette alla sua sepoltura, si recò con le altre donne al sepolcro e potette constatare la risurrezione di Cristo. Ella è conosciuta anche come “Maria Jacobi”, essendo madre di Giacomo il minore.
Chi era Cleofa?
E’ uno dei due discepoli che il giorno della risurrezione di Cristo, recandosi nella nativa Emmaus, furono raggiunti da Gesù che riconobbero nello spezzare il pane (Luca 24-13): “Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma lui sparì dalla loro vista …”.

Passiamo ora alla disamina della statua nella cronistoria dell’Arciconfraternita della Morte. Nel suo progetto di rifacimento delle statue, Cozzoli per la prima volta si trovò completamente libero nella ideazione perché non c’era un’immagine preesistente di Maria di Cleofa da prendere come modello. Doveva solo prendere atto della decisione dell’Arciconfraternita di togliere dalla processione la statua di Gesù recante la croce e sostituirla con quella di Maria di Cleofa. Infatti, la statua del Calvario, realizzata in cartapesta con testa, mani e piedi in legno, fu portata in processione fino al 1913. La sostituzione fu giustificata dall’Arciconfraternita nella necessità di abolire l’anacronismo di vedere il Calvario nella processione dei Misteri organizzata dall’Arciconfraternita di Santo Stefano e il giorno dopo rivederlo nella processione del sabato santo. Si trattò, a mio avviso, di una spiacevole decisione, discutibile sotto vari aspetti: per significato, per arte scultorea, per tradizione.

Ma ritorniamo alla statua di Maria di Cleofa. Cozzoli creò l’immagine di una donna di media età, di corporatura robusta che a capo reclino contempla, raccolti in un panno, i chiodi che hanno trafitto le mani e i piedi di Gesù, e la corona di spine che ha martoriato il capo. Una contemplazione assorta che segue a un lungo pianto, come indicano l’arrossamento e il gonfiore delle palpebre.
Purtroppo, per un calcolo malfatto, la statua risultò notevolmente più alta delle altre statue, disturbando la disposizione armonica delle stesse. Nonostante l’imperfezione, la statua di Maria di Cleofa venne accettata dall’Arciconfraternita e uscì in processione per la Pasqua del 1914.
Come si spiega la “gaffe” del Cozzoli? Quando uno scultore si accinge a modellare una statua, procede innanzitutto a modellare l’opera mediante un bozzetto, mettendo in risalto forme, proporzioni e posizioni della futura scultura. Il tutto potrà poi venir completamente stravolto a seconda del caso ma potrà dare un’idea approssimativa del risultato finale ed un valido riferimento durante la fase di completamento dell’opera. Detto questo, nessuno potrà mai sapere perché Cozzoli, in fatto di altezza statuaria, sia uscito fuori dalla sua consuetudinaria tecnica artistica. Posso solo riportare il pensiero di un rinomato scultore, Giacomo Rossi: “Un artista, che artista sia, impiega le misure che non si possono misurare, perché è più vicino a Dio che alla terra, perché vede ciò che gli altri non vedono, parla come gli altri non sanno e con mezzi che gli altri non possono avere”.
Malgrado i numerosi impegni del proprio lavoro, Cozzoli aveva sempre in mente il progetto di rifacimento di tutte le statue del sabato santo. Ma soprattutto si sentiva responsabile dell’involontario errore per cui l’immagine di Maria di Cleofa era risultata troppo alta. Pertanto, senza chiede alcun compenso suppletivo all’Arciconfraternita, egli plasmò una seconda versione di Maria di Cleofa, identica alla prima nella posa, nell’espressione e nei colori, e naturalmente di altezza uguale alle altre statue.
La nuova statua, ammirata come la precedente, venne portata in processione per la prima volta il sabato santo del 1924. Infatti, nella parte anteriore del basamento possiamo leggere la seguente epigrafe:


TUTTA MODIFICATA DALL’AUTORE
A SPESA DELL’AMMINISTRAZIONE
Presieduta dal Sig. Nicola Iannone
di Luigi
NEL 1924


La notte di quel sabato, come racconta Orazio Panunzio (Diario per la Confraternita della Morte, Molfetta, 1987), ci fu un violento temporale, per cui la nuova statua di Maria di Cleofa trovò riparo all’interno di un portone al numero civico 32 di largo Sant’Angelo. In attesa che il temporale finisse, le donne lì presenti cominciarono a recitare il rosario. Durante la recita della preghiera mariana, ebbero la gradita sorpresa di vedersi presentare Giulio Cozzoli in persona, austero nel contegno e nell’abbigliamento, il quale voleva assicurarsi che la statua, da lui plasmata in seconda versione, non avesse subito danni dalla pioggia. Con un panno leggero esplorò la statua in ogni piega della veste e del mantello; esaminò ogni dettaglio delle mani e del viso, temendo un ristagno dell’acqua piovana. Dopo una lunga sosta forzata, la statua prese a dondolarsi lentamente, insieme alle altre, incamminandosi per via Sigismondo. L’alba non era lontana.

* Testo a cura del prof. Cosmo Tridente.
* Foto provenienti dall' archivio privato del dott. Francesco Stanzione.

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